Ecclesialità

Conosciamo don Tommaso Pace, nuovo parroco dell’unità pastorale di Sette Spade, Carmine e San Domenico

Tra le tante novità che hanno interessato la vita ecclesiale della nostra città, c’è quella dell’arrivo di don Tommaso Pace, nuovo parroco dell’unità pastorale di Sette Spade, Carmine e San Domenico
Arrivato questo autunno, è stato subito accolto dai suoi parrocchiani con grande festa e anche speranza, per rinnovare la comunità parrocchiale e inaugurare un nuovo cammino da percorrere insieme. 
Denise Profeta, Gaia Calamita e Alessia Ballacchino, del nostro gruppo giovanissimi, lo hanno incontrato e chiacchierato un pò con lui.

Ci parli di lei, di come era da bambino.
L’esperienza dell’acr è stata per me determinante. Da bambino volevo seguire la messa e il mio parroco mi metteva uno sgabellino perché avevo cinque anni ed ero piccoletto: lo metteva dietro l’altare per farmi arrivare alla mensa, già io a sei leggevo e mi faceva leggere le meditazioni del Rosario. Per cui l’acr per me era diventata la mia seconda famiglia.
L’altra esperienza determinante per la mia vita è stata lo scoutismo. Agli scout arrivo non da bambino, perché da bambino ero con l’acr che seguivo regolarmente in parrocchia. Poi nella fase dell’adolescenza, quindi il periodo del catechismo -per la cresima si intende- ho rotto con la parrocchia e me ne sono andato. Una forte divergenza di veduta con la catechista con uno scontro verbale molto acceso, di conseguenza poi mi sono vergognato a chiedere scusa, l’orgoglio degli adolescenti che ti fa innalzare muri e pareti e, quindi, sono sparito. Più avanti, verso i 16 anni, un mio amico mi ha chiesto se volevo partecipare agli scout. La domanda che ho fatto è stata: ma si va a messa? Perché non volevo andare in chiesa Madre e neppure al Carmine, dove c’era la mia catechista. Il mio amico mi rispose di no, ma che però si andava in convento, in cui c’era Padre Gambino, parroco di quel convento e che poi è diventato il mio padre spirituale. Prima di riuscire a confessarmi è passato un anno, perché dovevo prendere confidenza con l’ambiente. Lo scoutismo mi ha allargato gli orizzonti, facendomi vedere anche un modo diverso di pregare. Cercare il Signore non solo a livello -per così dire, liturgico- ma anche esistenziale.  Determinante per la mia scelta personale, è stata l’esperienza del presepe vivente, sempre in quell’anno, che è stata una vera e propria “battaglia di solidarietà” in quanto abbiamo incontrato le famiglie. Io mi sono sentito chiamato dai capi ad essere uno di quelli che poi andavano nelle famiglie concretamente per portare delle cose o dei fondi o la spesa. Ma la cosa che più mi ha colpito, è l’affetto che avevano bisogno le famiglie, non la spesa. Questo avvenimento mi ha messo in crisi. Essendo un ragazzo di 17 anni, mi sono chiesto che tipo di affetto potevo donare a queste persone che mi parlavano, mi facevano il caffè, ovvero l’unica cosa che avevano a disposizione, che mi accoglievano, si fidavano e si confidavano gentilmente. Ero un ragazzo, andavo a scuola a Santo Stefano di Quisquina, avevo anche una ragazza e da lì cominciai a lavorare. La prima volta che mi parlarono di vocazione, ho avuto paura, la parola vocazione mi faceva paura, l’idea della definitività del per sempre e di un falso modello di prete. Forse perché pensavo che il prete era soltanto l’uomo che stava in sacrestia per ricevere persone, confessare, celebrare la messa e basta. Non ero pronto, però, quando poi ho fatto un’esperienza ancora più radicale di Cristo all’interno del rinnovamento dello Spirito Santo, fu proprio lì che ho incontrato Gesù, come vivente e non come personaggio storico. Lì ho capito che c’era qualcosa da fare. E così poi, nel 2004, sono andato ad un convegno a Rimini e ho fatto la scelta del seminario. Ma il problema era comunicarlo in famiglia e dire ai miei che avevo fatto  questa scelta. Quando mi sono convinto e sono riuscito a dirlo, la negazione è stata drastica. Mia madre ha detto: io non voglio un figlio che si va a chiudere dentro una chiesa ammuffita! E in effetti tutte le chiese che ho trovato, tranne quella di Porto Empedocle, avevano tutte tracce di muffa. Vabè, aveva ragione mia madre. Mio padre mi vedeva sprecato, perduto, pensava fosse una vita inutile, ma intanto ho cominciato con il seminario e sono stato ordinato sacerdote il 25 novembre del 2011. Chiaramente la vita in seminario non è stata semplice, è stata una vita molto intensa, piena di prove, di esperienze forti, sia umane che spirituali. Una scelta ponderata lentamente, molto lentamente, senza fretta e senza voglia di finire subito. Poi arriva la prima esperienza pastorale a Canicattì e la seconda come parroco a Porto Empedocle.
Ho interrotto l’esperienza di parrocchia per completare gli studi. Dopo un pò sono tornato e continuando a farlo da studente, sono diventato Vice parroco a San Giovanni Gemini e ad agosto 2020 ho ricevuto la chiamata per venire a Licata come parroco di questa unità pastorale. L’avventura è stata intanto conoscere le persone in un contesto di pandemia, in cui, purtroppo, siamo tutti mascherati e questa è una vera sfida. La seconda sfida, forse più grande, è quella di provare a proporre un cammino unitario, in un momento in cui ogni parrocchia, giustamente, conserva la sua identità propria, la sua fisionomia. Chiaramente l’unità pastorale fa perdere delle cose però, al tempo stesso, ne semplifica altre, quindi si percepisce il bisogno di rispondere alle esigenze di bambini e famiglie, gli ammalati e i poveri: abbiamo tante famiglie che assistiamo regolarmente con tutte le sfide che propone il Vangelo oggi.

Se si dovesse presentare a chi non la conosce con un’immagine o una parola, quale potrebbe rappresentarla meglio?
Sorriso. L’immagine che mi contraddistingue di più e che mi identifica è il sorriso, perché non ha senso camminare armati di se stessi, una persona libera che ha conosciuto e che cerca di conoscere se stesso ogni giorno e ha fatto esperienza del Signore per amore, non può che sorridere ed essere felice quindi di mostrare anche l’apertura verso l’esterno, con il sorriso.

Qual è il ricordo più bello legato alla sua famiglia?
Il ricordo più bello è l’unione non solo di noi cinque, perché noi siamo tre figli, con due genitori ancora presenti, ma anche l’ottimo rapporto con i fratelli di mia mamma e i rispettivi marito, moglie e figli con i nonni. Anche dalla parte di mio padre siamo una grande famiglia. Quindi l’unità è il senso di custodia reciproca.

All’inizio, parlando della sua scelta presa, ha avuto dei dubbi? E se si, come ha fatto a superarli?
I dubbi non li ho avuti all’inizio ma sono comparsi a metà cammino, il che è stato peggio perché sentivo la mia umanità e quindi le mie domande sono state “ma saprò rinunciare ad essere papà di qualche bambino? Saprò rinunciare ad una persona con cui condividere tutta la mia esistenza?, quindi la crisi era dovuta alla sproporzione tra la grandezza del ministero sacerdotale e la piccolezza della mia persona. Però poi ho avuto conferma della mia scelta in due momenti. Il primo andando a Lourdes, dove mi sono ritrovato accanto agli ammalati, quindi chiamato in causa facendomi passare una buona dose di egoismo e anche di egocentrismo. Il secondo è stata l’esperienza fortissima da Biagio Conte per un mese intero, dove si è a contatto con i poveri. Lì ho capito che, come dire, avevo avuto fin troppo nella vita e non dovevo più decidere io.

Poco fa ha detto che ha avuto una fidanzata. Come ha preso la sua fidanzata questa scelta?
Ho avuto nella mia vita sempre la fortuna di incontrare persone comprensive. Comprensive significa che mi hanno veramente voluto bene. Questa ragazza mi voleva tanto bene e capiva che non c’era più la pienezza del dono. Io quando mi lego ad una persona sono un tipo molto fedele, preciso però che lei vedeva che c’era qualche mancanza e quando ha capito che la mancanza non era una persona fisica ma era Cristo, essendo anche lei molto legata alla fede e alla chiesa, mi ha detto che non poteva prendersela con lui e che quindi mi lasciava partire. C’è stato un senso di di accompagnamento e quell’affetto forte che ci legava si è trasformato in fraternità.

Parlando di amicizia la domanda che nasce spontanea è: quanto sono stati importanti gli amici nella sua vita?
Ecco la domanda sull’amicizia, credo che sia una tra le più importanti che possono toccare la mia vita, perché l’amicizia è una realtà in cui credo fortemente con tutto me stesso. Del resto la parola amico ha la stessa radice tematica di amore, quindi posso dire che è la stessa fiamma che poi si allarga. L’amicizia nasce dall’amore e sono stati determinanti i miei amici per tre motivi. Molti di loro sono stati uno stimolo e altri sono stati determinanti per la mia scelta, perché mentre io vedevo i problemi ingigantiti e le mie inadeguatezze, loro mi dicevano che erano solo delle sciocchezze o comunque delle cose irrilevanti. In maniera particolare, ho nel cuore due coppie di sposi e un sacerdote. Questi mi sono stati vicini particolarmente, condividendo sempre tutto in maniera distaccata e aiutandomi anche nei momenti in cui io ero magari arrabbiato e non volevo sentire nessuno. L’amicizia, ancora oggi da sacerdote, è un valore che porta molto senso perché ancora oggi ho degli amici, i vecchi amici, e poi se ne sono aggiunti anche altri preziosi e ricchi di grande umanità e dunque credo che in una vita sacerdotale l’amicizia è fondamentale per trovare il ministero.

Un consiglio che si sente di dare ai giovani affinché possano inseguire i propri sogni.
Per inseguire i propri sogni, qualsiasi essi siano, che sia una vita vocazionale, che sia una vita matrimoniale o una scelta di studio, bisogna avere sempre un punto di riferimento con cui condividere e consegnare il proprio vissuto. Io ho avuto la grazia di avere dei punti di riferimento e questo mi ha salvato. Molti ragazzi o ragazze non hanno un punto di riferimento, sono completamente soli e ci tengo che passi questo messaggio, ovvero che la parrocchia di oggi vorrebbe essere anche il luogo dove i giovani vivono la compagnia buona, poi il Vangelo viene in un secondo momento. È bene costruire questa compagnia perché molti ragazzi a casa non possono confidarsi con i genitori, con il fratello o con la sorella, non c’è la comprensione, l’accettazione, quindi che trovino un punto di riferimento serio però, non uno qualsiasi che ti distrugge, e te ne accorgi se una persona è seria. Se mentre gli parli nel tuo cuore suscita gioia e serenità, tranquillità, emozione, questo viene da Dio, se invece suscita malessere o inquietudine, è una persona che bisogna, come dire, allontanare. I giovani hanno bisogno di un punto di riferimento forte, non devono avere paura di parlare con un prete, noi non li mangiamo, anzi, un sacerdote giovane può dare una grande mano.

Qual è il consiglio che vorrebbe dare ai giovani per farli partecipare in maniera attiva alla vita di un gruppo, di un’associazione, della chiesa stessa?
Una volta superata la pandemia, perché la pandemia è una catena, una prigione, si può partire dallo sport ad esempio, da una camminata per chi è più avventuroso, anche un’escursione in montagna. Si potrebbe pensare proprio a queste cose che sono semplici ma umane, per poi cominciare a fare la proposta. Lanciare una proposta e non un’ imposizione, come a dire: se vuoi sperimentare un livello maggiore di amicizia ed amore ti propongo questa cosa, quindi arrivare all’incontro con Cristo, non direttamente ma per vie progressive. Partire dalle relazioni, quelle umane. Quando poi si crea il gruppo, si fa entrare anche Gesù in mezzo, come l’ospite d’onore, quello che può cambiare la nostra vita.

Ci avviamo alla fine di questa nostra chiacchierata. Ci lasci un augurio per questo periodo di pandemia. 
Ah, bello. Quello che auguro a me stesso, scoprire Gesù che nasce nella rinascita delle nostre relazioni, a partire da chi abbiamo accanto. Però non un Gesù di gesso, ma un Gesù che si fa carne nella carne di chi abbiamo vicino nella nostra vita.

di Gaia Calamita e Alessia Ballacchino
Settore Giovanissimi Ac S.G.M.Tomasi, Licata