Riflessioni a 33 anni dalla strage che ha cambiato la coscienza civile del Paese
Ero un ragazzino delle medie quando ho iniziato a conoscere la parola “mafia” non solo come qualcosa di oscuro e lontano, ma come una presenza concreta, brutale, che entrava prepotente nella mia vita.
Ricordo ancora l’emozione e la confusione che provai alla notizia dell’assassinio del giudice Rosario Livatino: un giovane magistrato, serio e silenzioso, ucciso mentre andava al lavoro. Sembrava impossibile.
In seguito arrivarono altri nomi, altre morti: Libero Grassi, imprenditore coraggioso che si era ribellato al pizzo; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dilaniati dalle bombe di Capaci e via d’Amelio; Padre Pino Puglisi, colpito il giorno del suo compleanno perché insegnava ai ragazzi di Brancaccio a dire “no” alla logica mafiosa.
Erano uomini resilienti e coraggiosi, ma vittime di un sistema che prima scredita e distrugge la credibilità dei suoi interlocutori, poi isola e infine colpisce, tra l’indifferenza delle coscienze anestetizzate dal meschino opportunismo.
Erano anni cupi, si respirava paura. Ma ancor più forte era la rassegnazione, come se il male fosse invincibile, come se sperare in un cambiamento fosse solo un esercizio inutile.
Lo ricordo bene con gli occhi di allora: l’atmosfera di silenzi, sguardi bassi, scuole che tacevano, chiese che a volte preferivano non esporsi troppo.
Eppure, proprio in quel buio, qualcosa si accese. Il grido di condanna di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi: io c’ero.
Così, paradossalmente, quegli anni mi hanno segnato, hanno messo radici nella mia coscienza, mi hanno insegnato ad essere e fare la differenza.
Grazie anche a uomini come Padre Gaspare Di Vincenzo, e al suo Centro 3P, che ci insegnava che il Vangelo non è evasione dal mondo, ma un invito a costruirlo in modo nuovo. Che la fede non si vive in sacrestia, ma nelle scelte concrete, nella responsabilità, nel coraggio quotidiano di scegliere il bene anche quando costa.
Da allora ho capito una cosa: il male può essere potente, strabordante, insinuante, anche affascinante e seduttivo.
Può infiltrarsi negli ambienti più insospettabili, perfino in chi si professa giusto o paladino di ogni circostanza. Ma non è eterno. È destinato a perdere, se noi non lo lasciamo vincere dentro di noi.
Oggi, tutti ci dichiariamo “contro la mafia”, contro ogni violenza, contro ogni discriminazione ed esclusione.
Ma troppo spesso le nostre scelte, i nostri silenzi, il nostro modo di trattare e vivere la cosa pubblica parlano e puzzano d’altro.
La cultura mafiosa o post-mafiosa è una mentalità.
È l’ingiustizia tollerata.
È il compromesso accettato.
È il privilegio difeso con la scusa della normalità.
Per questo non basta indignarsi.
Occorre vivere diversamente.
Agire con coerenza.
Educare alla giustizia.
Lavorare ogni giorno per una società in cui la legalità non sia solo una parola, ma una scelta interiore, radicale, condivisa.
Lo dobbiamo a quei martiri della giustizia e della fede.
Lo dobbiamo a noi stessi. Ma soprattutto, lo dobbiamo ai nostri figli, perché non crescano più all’ombra della paura o della sudditanza, ma nella luce di una speranza credibile.
di Enzo Sferrazza